
Quando un ciclone fa saltare la corrente o un incendio isola intere comunità, il tempo per ripristinare il segnale è tutto. In Australia, Optus e Nokia hanno messo in campo una soluzione che sembra uscita da un manuale di pronto intervento: un drone vincolato da un cavo (“tethered”) che solleva in quota una small cell e la trasforma, di fatto, in una bts portatile capace di ristabilire voce, SMS e dati in poche ore, con un raggio di copertura che arriva a circa due chilometri. L’annuncio arriva con dettagli tecnici concreti e un primo giro di test sul campo: non un concept patinato, ma un prototipo operativo pensato per emergenze reali.
L’idea è elegante nella sua semplicità: a terra c’è una stazione compatta che fornisce al drone alimentazione continua e collegamento in fibra; in aria, fino a 120 metri di altezza, la small cell di Nokia si aggancia alla rete di Optus non tramite una bts superstite (che spesso non c’è più), ma via satellite, in modo da operare in autonomia rispetto all’infrastruttura circostante. Secondo quanto riportato, il sistema può restare operativo fino a sette giorni consecutivi grazie all’alimentazione dal suolo, con una potenza continua di circa 4.500 watt e supporto a payload fino a 15 kg: caratteristiche che lo rendono realmente usabile in scenari di crisi prolungata.
Il drone utilizzato nei test è un heavy-lift progettato a Melbourne dalla XM2 (piattaforma EON800): non parliamo quindi di un quadricottero hobbistico, ma di un sistema professionale pensato per operare in modo stabile, con sensoristica di bordo e un’antenna 4×4 MIMO omni per offrire copertura 4G/5G (voce e SMS inclusi) sull’area di intervento. I trial si sono svolti alla Macquarie University e hanno mostrato throughput dati concreti e continuità di servizio nelle condizioni di prova, con l’obiettivo dichiarato di integrare la soluzione nella “toolbox” di risposta ai disastri di Optus.
Nokia, da parte sua, sta costruendo questa architettura su componenti già in portafoglio: la pagina ufficiale sulle small cells cita l’utilizzo della radio remota “Shikra” (leggera e ad alta potenza) e di una baseband “Tuuli 6” a terra, un’accoppiata che consente l’inserimento rapido nella rete con gestione sicura e telemetria in tempo reale. Non è solo connettività: il payload prevede anche una camera a 360° con streaming live a bassa latenza, utile ai centri di comando per avere “occhi” sulla scena e coordinare i soccorsi. È un dettaglio importante perché sposta il drone da “palo volante” a vero nodo informativo sul territorio.
Il tassello satellitare è il collante di tutto: collegando la small cell direttamente al core di Optus via link satellitare (citato esplicitamente nelle comunicazioni di lancio), la soluzione resta operativa anche quando dorsali in fibra, microonde o siti macro sono fuori servizio. In Australia, dove incendi, alluvioni e cicloni possono isolare aree immense, è un’ancora di salvezza tecnologica con un razionale molto forte.
Questa sperimentazione non nasce nel vuoto: Optus e Nokia negli ultimi mesi hanno stretto più accordi “di sostanza”, dalla modernizzazione della RAN regionale con le nuove radio Massive MIMO Habrok e baseband Levante, al core per i servizi voce 5G con la suite cloud-native CNCS. In altre parole, la “torre portatile” si inserisce in un percorso di rinnovamento più ampio della rete Optus, che va dall’accesso al core, con focus esplicito su resilienza e automazione.
Guardando sotto la lente tecnica, ci sono tre aspetti che convincono. Il primo è la continuità energetica: un tethered drone elimina il collo di bottiglia delle batterie di bordo e diventa prevedibile nei turni operativi ( fino a una settimana ). Il secondo è l’integrazione “nativa” con il core e l’OSS: se la small cell è gestita come qualunque altro nodo RAN, provisioning, KPIs e sicurezza restano sotto controllo. Il terzo è la logistica: la stazione a terra è trasportabile su pickup o trailer, la salita in quota è immediata, la footprint a suolo è ridotta. Sono tutte qualità che, in contesto emergenziale, contano più di ogni benchmark da laboratorio.
Naturalmente non è una bacchetta magica. Un raggio di circa due chilometri non sostituisce un cluster macro su aree vaste: è una bolla di connettività tattica, da spostare dove serve — un centro di evacuazione, un ospedale da campo, un nodo viario — e magari da replicare con più unità in parallelo. Poi c’è il tema meteo: vento forte e fumo denso possono complicare la vita ai droni, pur con sistemi heavy-lift e tether stabilizzato. E infine servono procedure chiare con le autorità aeronautiche per superare i limiti operativi standard (in Australia, l’altezza di 120 metri citata resta il riferimento pratico). Sono limiti gestibili, ma vanno messi a progetto.
Dal punto di vista di chi opera le reti, il valore vero è nella rapidità di ingaggio. Una “torre portatile” che si chiude in un cassone, si mette su un pickup e in poche ore ricostruisce voce e dati, cambia l’aspettativa dei cittadini e degli “blue light services”. E apre scenari ulteriori: piccoli eventi in aree rurali, cantieri isolati, esercitazioni di protezione civile. Non sostituisce il piano di hardening dei siti macro con energia di backup e trasporto ridondato, ma lo completa con un livello mobile di resilienza che finora era difficile da ottenere senza soluzioni costose come i COW/COLT con pali telescopici e generatori di grande taglia.
Questa soluzione convince perché è “rete in una scatola”, con una filiera chiara: radio leggera, baseband a terra, backhaul satellitare, telemetria e video per il command-and-control. Non è un esperimento da show-room: è un toolkit che, se pre-posizionato in regioni a rischio e con squadre addestrate, può ridurre di giorni i tempi di riconnessione dopo un evento estremo. Per l’Europa mediterranea, Italia inclusa, dove incendi e alluvioni sono purtroppo più frequenti, vale la pena osservare da vicino questi trial australiani. Il passo successivo che vorrei vedere è l’integrazione by design con SIM o slice dedicati alla protezione civile, e una doppia ridondanza di backhaul (sat LEO/MEO più microonde temporanea) per evitare single point of failure proprio quando serve di più.