
Il 2 giugno 2025 Builder.ai ha depositato istanza di Chapter 7 presso il tribunale del Delaware, sancendo la liquidazione di un’ex promessa da 1,5 miliardi di dollari supportata da colossi come Microsoft e il fondo sovrano del Qatar. L’onda lunga di un’inchiesta sulle vendite gonfiate e su una tecnologia che, a quanto pare, non era mai davvero «automatica» ha definitivamente travolto la scale-up londinese, dopo che i creditori avevano congelato la maggior parte dei conti correnti della societàbloomberg.commobileworldlive.com.
La parabola di un unicorno britannico
Fondata nel 2016 da Sachin Dev Duggal, Builder.ai aveva promesso di «democratizzare» lo sviluppo software grazie ad algoritmi no-code capaci di assemblare app in pochi clic. Nel 2022 la valutazione tocca il miliardo di dollari; nel 2023 entra Microsoft con una partnership Azure e un assegno da 250 milioni, mentre Qatar Investment Authority rimpolpa il round di Serie Dcincodias.elpais.com. All’esterno, tutto luccica.
Dove l’IA non c’era (o non bastava)
Già nel 2019 il Wall Street Journal raccoglieva le prime testimonianze di clienti scontenti e sviluppatori interni: dietro l’interfaccia «Natasha» operavano centinaia di ingegneri in outsourcing dall’India. Il marketing parlava di intelligenza artificiale; la delivery sembrava una classica software-house con margini sottilissimi. Nel frattempo i ricavi proiettati per il 2024 – 220 milioni di dollari – si rivelano, alla prova dei libri contabili, appena 50 milionicincodias.elpais.com.
Il round-tripping con VerSe e altri numeri gonfiati
A fine maggio 2025 Bloomberg rivela un accordo fittizio con l’indiana VerSe Innovation (publisher di Dailyhunt): Builder.ai faceva transitare contratti in andata-e-ritorno per iscrivere vendite che non esistevano, pratica nota come «round-tripping»bloomberg.com. L’audit interno accende luci rosse sui conti; pochi giorni dopo, il principale creditore Viola Credit blocca 37 milioni di liquidità e chiede il rimborso immediato del prestito convertendocincodias.elpais.com.
L’effetto domino dei creditori
Il sequestro dei fondi innesca una reazione a catena. Builder.ai elenca oltre duecento creditori, tra cui lo studio Quinn Emanuel, l’agenzia di crisi Sitrick Group e perfino Shibumi Strategy, società di ex-Mossad ingaggiata per «attività di intelligence» dopo le prime inchieste giornalisticheft.com. Con meno di 10 milioni di dollari residui e passività stimate a 100 milioni, la dirigenza opta per la liquidazione ordinata.
Capitolo 7, non Capitolo 11
A differenza di altre tech in difficoltà, Builder.ai ha scelto il Chapter 7, procedura che non prevede un piano di ristrutturazione ma la vendita degli asset per soddisfare i creditori. Un segnale che l’azienda non ritiene di avere basi operative (né fiducia degli investitori) per un rilancio. In tribunale, il management parla di «circostanze imprevedibili»; i documenti depositati evidenziano invece almeno tre anni di bilanci poco trasparentitechinasia.comwindowscentral.com.
Che cosa resta della tecnologia
Sul piano tecnico, l’infrastruttura cloud – ospitata su Azure – è in teoria vendibile. Ma il reale vantaggio competitivo era (o doveva essere) l’asset di dati che addestrava l’algoritmo. Se le app erano in gran parte scritte da umani, quell’asset vale molto meno del previsto. Diversi potenziali acquirenti hanno già chiarito di non voler assorbire né il codice né i 700 developer sparsi in cinque Paesi, complicando la recovery value per i finanziatori.
Il ruolo degli investitori di peso
Microsoft mantiene il silenzio stampa: la partecipazione era minoritaria e «strategica». Resta però un punto di imbarazzo: Redmond aveva messo la faccia su demo pubbliche durante Build 2024. Anche QIA, già scottata da FTX, dovrà spiegare come abbia validato la due-diligence. In privato, alcuni VC definiscono Builder.ai «la Theranos del low-code». Un paragone forse ingeneroso, ma che riassume la portata simbolica del caso.
Il mio punto di vista
Ci troviamo di fronte a un textbook case di AI-washing: etichettare qualunque catena di montaggio digitale come «intelligenza artificiale» per moltiplicare la valutazione. Il problema non è l’IA in sé; è la scorciatoia narrativa che seduce investitori disposti a pagare multipli pazzeschi pur di restare nel «deal del secolo». Builder.ai dimostra che l’hype non sostituisce la due-diligence, e che il capitale – anche quello più sofisticato – è vulnerabile al fascino di dashboard scintillanti e pitch in stile TED.
Cosa impariamo (e perché ci riguarda)
Primo: una startup non è un unicorno finché i ricavi non si materializzano. Secondo: il low-code resta una tecnologia dirompente, ma non può eludere la complessità dello sviluppo software. Terzo: l’abbondanza di capitale degli anni 2020 ha premiato le narrazioni più che le metriche. Ora il ciclo si chiude; e a pagare non sono solo i fondi, ma anche i dipendenti, i fornitori e l’ecosistema che si fidava di una promessa di crescita senza attriti.
Chi cerca alternative farà bene a guardare con estrema attenzione la trasparenza dei modelli di delivery, la chiarezza dei costi e, soprattutto, la proporzione fra automazione reale e lavoro umano. Builder.ai lascia un vuoto, ma anche un monito: nel 2025 «IA» non è più una parola magica, è un claim da dimostrare riga di codice alla mano.