
⚠️ I dazi USA sui semiconduttori rischiano di trasformarsi in un boomerang da miliardi 💸.
La lettera inviata al Dipartimento del Commercio da Qualcomm, Intel e Micron suona come un allarme antincendio dentro a una camera bianca: se la Casa Bianca applicherà dazi fino al 25 % su wafer, chip avanzati e macchinari d’impianto, il primo effetto sarà un rincaro immediato della catena di fornitura statunitense. I tre colossi stimano «centinaia di milioni di dollari» di costi aggiuntivi l’anno dovuti al semplice acquisto di pezzi che oggi arrivano da Asia ed Europa — costi che andrebbero a sommarsi ai prezzi record dell’energia e alla stretta sul personale specializzato.
Il contesto è l’indagine Section 232 appena avviata da Washington su chip, packaging e strumentazione “critica” per la sicurezza nazionale. Lo scenario più probabile? Dazi pari o superiori al 25 % già nel primo trimestre 2026, con una clausola che permetterebbe al presidente di alzare l’asticella al 40 % qualora, entro un anno, il volume di import in settori “sensibili” non dovesse ridursi.
La stessa Semiconductor Industry Association (SIA) ha calcolato che un dazio generalizzato ridurrebbe di 4 miliardi di dollari l’anno i fondi destinati a R&S, spostandoli d’urgenza sulla pura gestione dei costi di approvvigionamento. Una scelta che, di fatto, eroderebbe il vantaggio tecnologico americano anziché rafforzarlo.
Un’altra cifra eloquente arriva dal fronte “capex”: secondo stime interne delle aziende di equipment, Applied Materials, Lam Research e KLA potrebbero perdere 350 milioni di dollari ciascuna in un solo anno tra mancati ordini esteri e costi di conformità doganale. Il conto totale per il comparto supererebbe il miliardo di dollari.
Gli effetti a cascata vanno ben oltre gli Stati Uniti. TSMC, ad esempio, ha avvertito che dazi prolungati rischiano di compromettere il megaprogetto — 16,5 miliardi di dollari — del nuovo campus di Phoenix, frenando l’intero piano di reshoring che Washington considera il fiore all’occhiello del CHIPS Act.
Dal canto suo, il Financial Times ricorda che la globalizzazione estrema del packaging rende quasi impossibile “tariffare” un chip senza colpire a raggiera laptop, smartphone e autoveicoli: il vero rischio è che i produttori trasferiscano ulteriore capacità ad altre giurisdizioni, abbattendo l’efficacia del provvedimento.
Anche le principali associazioni di categoria dell’elettronica — ITI e CTA — chiedono “prudenza basata sui dati” e un coinvolgimento reale dell’industria prima di colpire dispositivi consumer già esposti a margini minimi.
Il mio punto di vista
Mettere dazi su wafer e scanner litografici per “accorciare” la filiera è comprensibile sulla carta, ma rischia di diventare l’equivalente di tassare le viti per far tornare a casa la produzione di aerei: si colpisce l’ingrediente ma non si risolve la complessità del piatto. In un mercato dove un singolo chip attraversa in media tre continenti prima di finire su una scheda, la leva finanziaria va affiancata a investimenti massicci in talenti e infrastrutture. Diversamente, il rischio è di pagare il dazio… due volte: alla dogana e alla competitività.